La storia delle malattie contagiose e delle loro manifestazioni epidemiche è un campo di ricerca scientifica che rientra non solo nell’ambito delle Scienze della vita (medicina, biologia) ma anche in quello delle Scienze sociali. Infatti, la storiografia ci permette di cogliere l’intreccio fra epidemie e evoluzione delle società umane, analizzando e evidenziando l’inevitabile incidenza che ciascuna di esse ha ogni volta comportato sulle varie funzioni e usi delle risorse sociali (spaziali, materiali, cognitive, umane). Lungi dall’attribuire alle epidemie un primato causale, è difficile non notare come esse si siano rivelate decisive in molte congiunture storiche, rallentando o accelerando processi storici in atto, tra cui guerre, competizioni economiche, migrazioni, ecc. In effetti, gli esperti di storia globale sostengono che le epidemie e le loro diverse tempistiche potrebbero rappresentare un ulteriore strumento interpretativo nei confronti degli spostamenti del potere globale a lungo termine, come, ad esempio, quello dall’Asia verso l’Europa a partire dal XIII secolo o il dominio coloniale delle potenze occidentali su scala globale (Grmek 1963, Lippman Abu Lughod 1994, Diamond 1997).

Illustrazione tratta dal Codice Fiorentino raffigurante le epidemie di vaiolo nelle Americhe durante il XVI secolo (Fonte: Wikimedia Commons)

Il lungo processo di modernizzazione avviato nell’Europa occidentale rese la gestione della sanità pubblica una condizione indispensabile per la costituzione di popolazioni nazionali, le quali dovevano, in linea di principio, essere sane, alfabetizzate, registrate nelle statistiche nazionali, inserite nel mercato del lavoro e pronte ad adempiere ai propri doveri civici (sia in tempo di pace che in tempo di guerra). La gestione sociale della sanità pubblica nell’età moderna è forse esemplificata al meglio dall’emergere dei campi scientifici dell’epidemiologia e della geografia medica – ognuno con le rispettive Società, pubblicazioni scientifiche, ecc. –, così come dall’avvento di varie altre nuove tecnologie legate all’igiene pubblica e all’ottimizzazione del rendimento degli investimenti pubblici (urbanistica, ingegneria, sociologia, educazione, ecc.). Un notevole impulso allo studio delle epidemie diedero, inoltre, le prime ondate della colonizzazione europea; scrivendo sullo stretto rapporto tra epidemiologia, geografia medica ed espansione europea, lo storico franco-croato Mirko D. Grmek ha osservato che già dal XVII secolo “l’età delle grandi scoperte geografiche desta interesse per i nuovi cieli e la ‘patologia esotica’. Nasce così un nuovo ramo della medicina, la medicina tropicale”  (Grmek 1963). La logica di fondo di tali processi interni sarà accentuata dall’inasprirsi della concorrenza internazionale nella seconda metà del XIX secolo, un periodo di gravi crisi economiche e inarrestabile espansione coloniale. Infatti, l’importanza centrale delle grandi unità militari e la loro costante dislocazione in nuove condizioni ambientali comportò spesso l’insorgere di epidemie che colpirono sia le popolazioni indigene che i nuovi venuti, ovvero le truppe coloniali; questa continua riorganizzazione spaziale e umana su scala globale favorì l’affermarsi in ambito militare e coloniale di una solida tradizione scientifica di epidemiologia e geografia medica.

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Escursione della “Far Eastern Association of Tropical Medicine” alla volta di Burubudur, Giava Centrale, 1921 circa (Fonte: Collectie Stichting Nationaal Museum van Wereldculture, Licenza: CC BY-SA 3.0)

Lo scoppio della prima guerra mondiale fu il culmine di questo lungo processo di globalizzazione tecnologica, politica e militare. Sul piano epidemiologico, lo studio e la prevenzione delle epidemie fra le popolazioni militari e civili assunsero dimensioni inedite, che si possono comprendere alla luce dei progressi tecnologici compiuti in quegli anni, della posta in gioco militare nel corso della Grande Guerra, dell’estensione delle epidemie provocate dal trasferimento di milioni di soldati in nuovi ambienti e condizioni insalubri (si veda la malaria nel caso di acque stagnanti), e della comparsa della cosiddetta “influenza spagnola”. Quest’ultima scoppiò verso la fine della guerra e raggiunse il suo picco nel 1918 (Lina 2008); la “Spagnola”, alla quale viene addirittura spesso attribuita la fine anticipata del conflitto, causò milioni di morti in tutto il mondo (con un bilancio di circa 50 milioni vittime), colpendo soprattutto gli adulti tra i 20 e i 40 anni di età. A tutt’oggi le sue origini geografiche sono ancora contestate – tra le ipotesi più verosimili si citano l’Asia orientale o l’America del Nord (Lina 2008). In effetti, i nuovi mezzi di comunicazione e di trasporto comparsi in quel periodo resero questa pandemia ancora più indipendente dai tradizionali confini spaziali e temporali. In tal modo, essa venne a illustrare in maniera piuttosto morbosa la nuova realtà globalizzata che gli Stati nazionali e i loro rispettivi apparati scientifici avrebbero dovuto d’allora in poi affrontare. Questi ultimi erano sostanzialmente chiamati a superare il particolarismo dei loro interessi nazionali e a lavorare progressivamente per il consolidamento di una vera e propria comunità internazionale dedicata allo studio e alla prevenzione delle epidemie (Grmek 1963). Ovviamente, questa comunità internazionale non si sarebbe materializzata che dopo la seconda guerra mondiale e la sconfitta del progetto nazista e della sua particolare “versione” di geografia medica (Geomedizin).

La cruenta ma anche estremamente cosmopolita esperienza della prima guerra mondiale costituì un precedente assai costoso che permise a un gran numero di scienziati – civili e militari – di condurre ricerche innovative con notevoli risultati. In queste particolari condizioni, la Grecia – e più precisamente la regione greca della Macedonia, dove la famosa Armée d’Orient era di stanza e combatteva sotto comando francese – assurse a epicentro mondiale della ricerca e della lotta antiepidemica, coinvolgendo un gran numero di specialisti stranieri e greci, e accelerando così la modernizzazione delle politiche igienico-sanitarie del Paese. Questa modernizzazione sarebbe diventata ancora più urgente con l’espansione territoriale della Grecia nell’arco di questo periodo, nonché con l’arrivo delle centinaia di migliaia di profughi greci in seguito alla Catastrofe dell’Asia Minore nel 1922.

“Epidemia” è una parola greca

Situato ai margini geografici dell’Europa occidentale, lo Stato greco moderno costituiva sin dalla sua fondazione nel 1830 una parte integrante della modernità europea e intratteneva stretti legami politici, scientifici ed economici con le maggiori potenze europee dell’epoca (Francia, Regno Unito, Germania, Italia). Lungi dall’essere una semplice reliquia del passato nell’immaginario occidentale, la Grecia si presentava quale forza modernizzante nell’Europa sudorientale. Per di più, le condizioni climatiche dei Balcani e le ricorrenti malattie contagiose, come la malaria, rendevano la prevenzione delle epidemie una questione di grande urgenza – di pari passo con gli sviluppi internazionali.

La disciplina della medicina stessa risale all’antica Grecia e più in particolare a Ippocrate di Cos (ca. 460-377 a.C.), vissuto durante l’età d’oro di Pericle; Nel suo Sesto libro delle “Epidemie”, Ippocrate riporta una descrizione dettagliata delle malattie infettive, tra cui anche un possibile caso di epidemia influenzale in Tracia intorno al 410 a.C. (Lina 2008, Pappas et al 2008). Tuttavia, è la malaria che sembra aver avuto un impatto storico maggiore. Secondo l’ipotesi avanzata dal celebre classicista britannico W.H.S. Jones, la malaria potrebbe aver raggiunto in età classica una scala epidemica talmente vasta che potrebbe aver effettivamente contribuito alla perdita di potere delle città greche a livello regionale; le origini delle epidemie di malaria nell’antica Grecia sono state a lungo oggetto di dibattito tra gli storici (cfr. Grmek 1983). Vale la pena notare che Jones aveva elaborato la sua tesi mentre lavorava in Grecia al fianco dell’epidemiologo e premio Nobel britannico, Ronald Ross, a sua volta invitato nel 1906 da parte della Società privata incaricata del progetto, a seguire i lavori di drenaggio del lago Copaide (Grmek 1963, 1983).

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Incisione di un busto di Ippocrate e prima pagina della sua opera “Delle arie, le acque e i luoghi” in inglese (Fonte: Wellcome images, Licenza: CC BY 4.0)

In effetti, per via delle specifiche condizioni ecologiche, la malaria aveva avuto una presenza endemica in varie regioni della Grecia ed era rimasta una delle principali caratteristiche della storia sociale greca nel corso dei secoli. Come osservato da uno dei pionieri della storia medica greca, Aristotelis Stavropoulos, la malaria rappresentava la malattia prevalente in area ellenica, con un alto tasso di mortalità e epidemie ricorrenti (Stavropoulos 1982). La ricerca storica ci permette addirittura di rivisitare alcune delle più note epidemie storiche sotto l’aspetto della malaria (si veda Gounaris 2008 sull’epidemia del 1783 a Salonicco). In termini epidemiologici generali, si può concludere, come nota Stavropoulos – un sostenitore della teoria della continuità della medicina greca attraverso la storia – che le comunità greche dell’Impero Ottomano sembrano essere state relativamente meglio preparate contro la peste o le epidemie di vaiolo sia a causa dei loro contatti intellettuali con l’Europa occidentale, sia in virtù delle proprie tradizioni comunali (Stavropoulos 1982). Tuttavia, nel lungo periodo, la malaria costituirà una vera e propria sfida (endemica e persistente, con ricorrenze e potenziale epidemico), che la Grecia dovrà affrontare una volta liberata.

Il padre fondatore della geografia medica, il medico militare francese Jean Marc Christian Boudin, è stato egli stesso testimone della devastazione causata dalla malaria, quando nel 1828, un paio d’anni prima della fondazione dello Stato greco moderno, la malattia colpì le truppe francesi dell’Expédition du Morée (Campagna di Morea) arrivate in soccorso dei rivoluzionari greci nella loro lotta contro gli ottomani nel Peloponneso (Boudin 1842, Grmek 1963); come scriveva, “[dopo] aver osservato le febbri malariche in vari luoghi della Francia, della Germania e della Spagna, sono stato, nel corso della campagna francese del 1828 nella Morea, testimone di questa lugubre tragedia avvenuta nelle paludi di Navarino, dove ho visto il nostro esercito decimato nel modo più crudele senza nemmeno aver combattuto, a causa di una imperdonabile negligenza di tutte le norme igieniche” (Boudin 1842).

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Episodio della Campagna di Morea del 1828, Il Generale Sebastiani conquista Corone alla presenza del generale greco Nikitaras il 9 ottobre 1828 (dettaglio), (1828 circa) di Hippolyte Lecomte (Fonte: Wikimedia Commons, fr.muzeo)

Tuttavia, nonostante il fatto che la malaria continuerà a imperversare ­– a titolo esemplificativo, la città di Atene subirà nel periodo compreso tra il 1860 e il 1905, 14 epidemie di malaria di grandi dimensioni – nella seconda metà dell’Ottocento, e a parte qualche convegno per un pubblico limitato, non esisteva in Grecia una vera e propria iniziativa antimalarica (Mandyla et al 2011); Lungo tutto questo periodo, il Paese sembrava assediato dalla malaria, un problema che divenne ancora più acuto a causa della sua incidenza sullo stato di salute e preparazione delle forze armate greche, quanto mai indispensabili in un’epoca di aspirazioni territoriali. Il problema fu sollevato in primo luogo da esponenti della società civile e innanzitutto da scienziati impegnati, come i professori Savvas e Kardamatis, che presero nel 1905 l’iniziativa di fondare la Lega anti-malaria greca, strettamente legata a quella italiana. La Lega greca si mise subito al lavoro e fu presto appoggiata da re Giorgio I. Tuttavia, la sua attività si basava esclusivamente sull’iniziativa personale e sul volontariato, senza alcun effettivo coordinamento da parte della pubblica amministrazione. In ogni caso, pare che, in parallelo ai primi concreti interventi della Lega (campagne igienico-sanitarie, legislazione sul monopolio di Stato sul chinino, bonifiche), la sua campagna di educazione e mobilitazione sociale sia stata altrettanto significativa, in quanto ha contribuito a sensibilizzare gran parte della popolazione greca sull’importanza della prevenzione della malaria e, potremmo aggiungere, delle epidemie in generale (Mandyla et al 2011). Questa trasformazione delle epidemie in un problema tipicamente sociale con un dato potere di mobilitazione collettiva si rivelerà particolarmente importante negli anni a venire (si vedano anche i lavori di Katerina Gardikas 2008, 2018 e la tesi di Maria Vassiliou 2005).

Nei primi del Novecento, però, la gestione delle epidemie di malaria in Grecia si sarebbe rivelata una questione ben più complessa di un semplice dibattito sull’igiene nazionale: nel 1915, la Grecia formalmente neutrale, e più precisamente la regione greca della Macedonia e la città cosmopolita di Salonicco, da poco liberata (1912), viene bruscamente inserita nella realtà della prima guerra mondiale con lo sbarco delle forze dell’Intesa e la formazione sul fronte macedone dell’Armée d’Orient, sotto il comando francese. Con questo fatto la posta in gioco politica e scientifica della lotta antiepidemica sulle pianure macedoni viene a oltrepassare improvvisamente i confini locali o nazionali, entrando a far parte di un contesto più ampio di geopolitica, diplomazia e scienza militare.

Salonicco tropicale

Da appena 120.000 abitanti, la popolazione residente a Salonicco e dintorni raggiunse in quegli anni i 600.000 (Mikanowski 2012). La malaria, o “malattia numero 11”, come veniva chiamata all’epoca dall’esercito francese, si è presto rivelata, nell’ estate del 1916, un avversario temibile (Bernède 1998). Sebbene il tasso di mortalità fosse relativamente basso (Mikanowski 2012), l’impatto sulla prontezza al combattimento delle truppe alleate fu incommensurabile, dato che migliaia di persone furono ricoverate in ospedale. Il comandante delle truppe alleate, il generale francese Maurice Sarrail fu costretto ad occuparsene; fin dall’inizio dello stanziamento delle truppe fu messa in atto un’immensa operazione logistica per fornire ai soldati dell’Intesa tutte le infrastrutture loro necessarie, in modo da evitare la requisizione di qualsiasi abitazione della popolazione locale e quindi il rischio di trasformarsi in forze di occupazione. Questo implicò anche la realizzazione di importanti opere pubbliche a Salonicco e nei suoi dintorni (strade, ferrovie, rete di distribuzione di acqua potabile, bonifiche). Nell’ambito di questa operazione le forze francesi iniziarono persino a coltivare i propri ortaggi per soddisfare le loro esigenze alimentari anche in tempi di epidemie, una pratica questa che tuttavia attirò il commento sarcastico dell’allora primo ministro francese Georges Clémenceau che li affibbiò il soprannome di “giardinieri di Salonicco” (Bernède 1998).

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Campo di Zeitenlik; le truppe francesi marciano davanti ai generali Bailloud e Sarrail. 21 novembre 1915. “Le Miroir”, numero 104, pagina 5, 21 novembre 1915 (Fonte: Wikimedia Commons)

A parte questo grande sforzo di supporto logistico, lo spettro della malaria e la sua prima insorgenza epidemica allarmarono le truppe dell’Intesa, che fecero chiamare i loro migliori specialisti in materia di medicina tropicale (da Ronald Ross ai fratelli Sergent degli Istituti Pasteur del Nord Africa). In realtà, come ha scherzosamente sottolineato Jakob Mikanowski, il fronte macedone “si trovava in Europa, ma non era europeo”, visto che gran parte delle forze occidentali erano composte da soldati provenienti dalle colonie (Africa occidentale, Madagascar), mentre agli occhi degli ufficiali francesi o britannici il clima e il caldo del Paese assomigliavano a quelli delle loro precedenti esperienze coloniali (Mikanowski 2012). A ciò si aggiunga che Salonicco era allora una città multietnica, fatto che rappresentava un ulteriore elemento di esotismo dal punto di vista dei nuovi arrivati (White 1920). Tuttavia, una volta sul posto, il personale medico occidentale collaborò con i suoi colleghi locali e coloniali; secondo Jacob Mikanowski, Salonicco era di fatto un vero e proprio laboratorio umano nel quale epidemiologi di ogni tipo combinavano diversi approcci per contrastare la malaria (sia il trattamento a base di chinino che il controllo dei vettori). Il lavoro di questi specialisti non riguardava solo i militari ma, naturalmente, anche le popolazioni civili; e le forze dell’Intesa partecipavano anche all’amministrazione della città. A livello prettamente medico, la Società Medica di Salonicco è stata il principale forum di discussione e di condivisione di conoscenze tra specialisti greci e stranieri, militari e civili. Jacob Mikanowski sottolinea che la vasta comunità medica ed epidemiologica che si è venuta a formare a Salonicco si è spinta oltre l’ambito della lotta alla malaria e dei confini della medicina tropicale, arrivando così a raggiungere un notevole livello di innovazione scientifica di portata universale, come dimostrato dal caso di Ludwik Hirszfeld (si veda Mikanowski 2012).

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Justin Godart parla con la Principessa Narychkine, fondatrice dell’Ospedale del Fronte Orientale, 1917 (Fonte: Wikimedia Commons/ Service Photographique de l’Armée d’Orient)

L’esperienza della prima guerra mondiale e la presenza delle forze alleate lasciarono il loro segno nella Grecia settentrionale; così, dopo il grande incendio di Salonicco nel 1917, il nuovo piano urbanistico fu affidato dallo statista greco Elefthérios Venizelos all’urbanista francese Ernest Hébrard. Il nuovo piano, rettangolare e conforme ai moderni precetti dell’igiene pubblica, segnerà una tappa importante nella storia della città (Lagopoulos 2005). All’indomani della guerra, inoltre, la lotta antiepidemica nel nord della Grecia resterà influenzata dall’esperienza bellica della cooperazione internazionale, come evidenzia, ad esempio, la collaborazione delle autorità greche con la missione della Croce Rossa americana in Macedonia (White 1920). Il coinvolgimento della comunità internazionale si verificherà anche a sostegno delle centinaia di migliaia di profughi che arrivarono nella città in seguito alla Catastrofe dell’Asia minore nel 1922. In breve, i radicali cambiamenti sociali avvenuti in quegli anni e le riforme igienico-sanitarie che questi avrebbero richiesto, portarono alla mobilitazione delle autorità greche e al passaggio, a partire dalla fine degli anni Venti, a una politica statale antiepidemica di tipo sistematico, soprattutto sul fronte della malaria, dapprima in collaborazione con la Lega greca anti-malaria, ma successivamente anche con istituzioni quale la Fondazione Rockefeller e le Nazioni Unite (UNRRA) (Gardikas 2008, 2018, Mandyla et al 2011).

Questa svolta storica ha permesso alla società e allo Stato greco di rendere la lotta antimalarica una “questione nazionale” e, al contempo, di entrare a far parte della comunità scientifica internazionale anti-epidemica, che si stava pian piano affermando all’indomani della Grande Guerra e della pandemia della cosiddetta “influenza spagnola” (Tsoucalas et al 2015, Tsoucalas et al 2016, Lina 2008, Grmek 1963). L’aumento della consapevolezza comune sulle epidemie costituirà un precedente prezioso per le generazioni a venire in Grecia.

 

Testo originale: “Epidemiology and international cooperation in early 20th century Greece” in Greek News Agenda.

s.d.

 

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